Ricordiamo un ragazzo morto in carcere nel 1992


Premessa
La tragica morte di Daniele Franceschi non è stata l’unica morte di un ragazzo versiliese in un carcere. Approfondendo il tema delle morti in carcere ne sono emerse diverse. Tra le quali: la drammatica vicenda di Roberto Giannecchini, un altro giovane morto nel 1992. Abbiamo deciso di fare riemergere questa storia per comprendere meglio e fare comprendere come nonostante gli anni trascorrano inesorabilmente persista da parte del potere una mentalità oscurantista e proibizionista che non esita a seminare dolore e morte usando gli strumenti della repressione e in particolar modo quello del carcere. Un ringraziamento particolare va alla famiglia di Roberto che ci ha fornito la documentazione per potere studiare questa vicenda.
Contesto storico
La morte di Roberto Giannecchini, come quasi tutte le morti in carcere, è celata da ombre e misteri ma più di altre, per le dinamiche con cui avvenne, ci appare figlia di quel cinismo e di quella voglia di rispondere agli istinti più forcaioli della società di quelli anni. Eravamo nel 1992 in quello che storicamente viene chiamato il periodo di “mani pulite”, dove i magistrati godevano di una certa popolarità. Gli anni ’80 si erano conclusi da poco e la piaga dell’eroina incombeva ancora sui giovani o per lo meno su quelli che erano sopravvissuti. La società italiana era in trasformazione ma la direzione di questa trasformazione era saldamente nelle mani di una borghesia reazionaria che godeva dei vantaggi del riflusso dei movimenti avvenuto negli anni ’80. La piazza non era più da tempo il luogo della costruzione del conflitto sociale ma era il luogo dove il disincanto e la trasgressione si manifestavano con percorsi umani controversi. Sono anni dove la paura veniva diffusa attraverso informazioni sbagliate sull’AIDS, sui giovani visti tutti come scippatori o sbandati. Dove si andava in carcere per una legge proibizionista sulla droga, la legge “Iervolino – Vassalli” che sarà abrogata solo il 18 aprile del 1993 dalla vittoria sul referendum voluto con forza dagli antiproibizionisti. La politica viveva una crisi profonda dovuta alla corruzione di quasi tutti i partiti. Il passaggio dalla prima repubblica alla seconda repubblica avveniva a cavallo di questi anni. Le logiche perverse del potere si intrecciarono volutamente con gli istinti più primitivi della popolazione dando vita, nei fatti, ad un ulteriore spostamento a destra della società. A farne le spese come sempre non furono i potenti, corrotti o corruttori, ma i “poveri cristi”. La giustizia di quelli anni come del resto quella di oggi è sempre stata forte con i deboli e debole con i forti. L’informazione di quelli anni cercava, come del resto quella di oggi, il clamore. E dietro tutto, come sempre, stava chi contava i profitti. Dalle “comunità terapeutiche” private, ve la ricordate quella “lager” di Vincenzo Muccioli, alle ditte del mattone pronte a costruire nuovi carceri. In questi anni la popolazione carceraria subì un incremento difficilmente prevedibile anche per l’arrivo di molti immigrati dal Est Europa in particolare dall’Albania.
In questa fase di transizione dove i vecchi politici apparivano nudi per quello che erano, nuovi personaggi la facevano da protagonisti nei talk show televisivi dell’ “Italietta per bene” erano magistrati, generali dei carabinieri, giornalisti, psichiatri, sedicenti filantropi, ecc.
I Fatti
Roberto Giannecchini aveva ventisette anni quando muore in carcere. Secondo l’autopsia ufficiale ordinata dal sostituto procuratore Antonio Del Forno di Lucca ed eseguita dal dottor Gilberto Martinelli la morte sarebbe stata causata da arresto cardiaco legato a problemi di cuore che il giovane aveva. Infatti tutti erano a conoscenza dei suoi disturbi cardiaci che appare davvero incredibile come sia stato possibile che un qualsiasi tribunale abbia ritenuto la sua situazione di salute compatibile con la condizione carceraria. I fatti in questione, parlano da se più di qualsiasi commento e mostrano la cruda realtà di una burocrazia fatta di scartoffie e procedimenti che non tengono mai conto della reale situazione. Roberto Giannecchini, a causa di un endocardite subisce il 24 aprile del 1992 un delicato intervento chirurgico al cuore presso l’ospedale di Cisanello a Pisa. Si tratta con precisione della sostituzione della valvola mitralica, non una cosa di poco conto. Il 29 aprile, cioè solo cinque giorni dopo l’intervento chirurgico, ancora in piena fase di convalescenza, il tribunale emette un ordine di carcerazione che sarà eseguito pochi giorni dopo. Roberto Giannecchini morirà in carcere 24 ore dopo il suo arresto e solo 20 giorni dopo il difficile intervento alla valvola aortica. Stando alle testimonianze dei sanitari non si era ancora del tutto cicatrizzata la ferita dell’intervento. E’ da chiedersi come mai una persona in questo stato di salute sia stata prelevata dai carabinieri, ammanettata e portata in carcere. Se poi si pensa che Roberto Giannecchini doveva scontare solo un residuo di pena, per la precisione 5 mesi e 13 giorni di detenzione non per reati gravi ma per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale allo stupore, all’indignazione, si aggiunge la rabbia.
Nel carcere di San Giorgio di Lucca, Roberto trovò la morte. Una morte che non è sta figlia di fatalità ma di un accanimento da parte della magistratura nei suoi confronti. Infatti non esisteva minimamente il pericolo di fuga e la possibilità di reiterazione del reato. Lo stesso Roberto era stato in affidamento ai servizi sociali e aveva iniziato un percorso per uscire dalla dipendenza dell’eroina. Roberto era un ragazzo, come tanti, che aveva iniziato a lavorare fin dall’età di 14 anni e lo aveva fatto di continuo non dando adito ai suoi datori di lavoro di lamentarsi. Inoltre Roberto passava buona parte del suo tempo libero a costruirsi una casa per se e la sua famiglia. Roberto era sposato e aveva due bambine che persero il padre in tenera età. Insomma tutt’altro che un soggetto pericoloso per se e per gli altri. I sanitari che avevano in cura Roberto rimasero molto perplerssi sulla decisione dell’arresto. Il dottor Francesco Veronelli che operò il ragazzo sostenne che l’intervento di sostituione della valvola aortica era perfettamente riuscito ma che il paziente necessitava un periodo di calma e tranquillità per una corretta convalescenza. Infatti Roberto necessitava ancora di una terapia antibiotica e non di subire stress ed emozioni come sono quelle di un arresto. Non possiamo affermare, ma nemmeno escludere, se Roberto durante le ore della sua detenzione subì violenze fisiche o psicologiche ma possiamo affermare con assoluta certezza che il suo stato di salute era incompatibile con la detenzione carceraria.
La sacrosanta richiesta di giustizia da parte dei famigliari e degli amici non trovò che risposte di circostanza. Iniziò il solito patetico scaricabarile delle responsabilità. Carabinieri, procura e servizi si celarono dietro presunte iadempienze burocratiche alla faccia del buon senso e della logica. La madre ma anche alcuni amici parlarono, invece, di un accanimento contro il giovane che aveva già subito attenzioni particolari da parte delle forze dell’ordine. Rimase il fatto che mentre tangentisti, corrotti, corruttori e mafiosi circolavano liberi un giovane di 27 anni veniva ucciso dall’ottusità di una giustizia che di giusto ha solo il nome.
Sulla vicenda ci furono anche due interrogazioni parlamentari una presentata dall’onorevole Milziade Caprili di Rifondazione Comunista e un altra successivamente dai deputati del PDS. Le risposte del ministro di giustizia saranno vaghe e non produrranno signignificativi risvolti. Ciò ci conferma, se mai ne avessimo avuto bisogno, di come nelle istituzioni certe prassi non riescono ad uscire dalla formalità e a produrre risultati concreti. La stessa inchiesta aperta dalla procura di Lucca sarà poi archiviata. Decisione che non ci sorprende e che ci conferma come la casta sempre pronta ad accusare, inquisire, perseguitare i “poveri cristi” sia invece tollerante verso i propri appartenenti. Cane non mangia cane!
Riflessioni
Da questa triste vicenda nascono diversi spunti di riflessione. Per questo per noi è stato importante recuperarla. Emerge con chiarezza quello che in molti chiamano l’eccesso di zelo, estremo rigore e che noi chiamiamo repressione contro un giovane che aveva la sola colpa di non essere un benestante. Se Roberto avesse avuto soldi e si fosse potuto permettere un avvocato di nome, forse, non sarebbe stato nuovamente arrestato. Il primo spunto è quindi sul ruolo di una giustizia di classe che in nome di un bigottismo giustizialista non esita a sotterare buonsenso, diritti e dignità umana. Il secondo spunto è quello che ci parla di una intera generazione massacrata dalle logiche perverse del potere come quella proibizionista. Sono tantissimi i giovani che a causa dell’eroina, ma soprattutto di come il potere ha voluto gestire questa piaga, che hanno sofferto o che sono morti. Interessante sarebbe vedere il ruolo nefasto che hanno avuto i SERT con la somministrazione del metadone. Un terzo spunto è quello di come l’informazione affronta la vicenda con paternalismo, fatalismo e continua ricerca dello scoop. Dalla nostra ricerca: un titolo di un articolo più di ogni altro ci sorprende. Ed è il seguente: “La morte del drogato finisce in parlamento”. Un titolo cinico e spietato privo di rispetto per la dignità umana della persona e per il dolore dei famigliari. Un titolo ad effetto basato su stereotipi che sposta volutamente l’attenzione da quello che era l’accadimento centrale.
Lo scopo di questa nostra ricerca è quella di strappare dall’oblio del dimenticatoio comune storie di vissuto che possono insegnarci veramente tanto. Non c’è futuro senza memoria. E non si tratta di un semplice slogan ma di una verità che vediamo quotidianamente. La storia di Roberto Giannecchini come quella di Daniele Franceschi è la storia di proletari terminati nell’ingranaggio della giustizia borghese che non ha avuto scrupoli sulle loro vite. Ricordare queste storie significa battersi anche perchè fatti simili non abbiano a ripetersi.
Gruppo di Lavoro sulle morti in carcere “Daniele Franceschi”

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