Bilancio e prospettive del movimento a 10 anni da Genova


Dieci anni fa, nel Luglio 2001, migliaia di persone provenienti da tutto il mondo scendevano per le strade di Genova per contestare il vertice del g8, la periodica riunione dei capi di governo delle maggiori potenze industriali del mondo, mettendo sotto accusa le politiche economiche liberiste portate avanti da quei governi, che avevano prodotto sempre più povertà, disuguaglianze e devastazione ambientale.
Le giornate di Genova rappresentano l’acme di un movimento esploso a livello internazionale nel 1999 a Seattle, quando le proteste di piazza riuscirono a bloccare i lavori del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. Poche settimane dopo Genova però, con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre2001 e la conseguente invasione dell’Afghanistan, che avrebbe dato avvio alla “Guerra Infinita” al “terrorismo”, con tutte le sue conseguenze sia all’interno dei paesi dominanti che nel resto del mondo, saremo entrati in una nuova fase politica del capitalismo attraversato da una crisi ormai strutturale: fase in cui ancora oggi siamo immersi e con cui anche quel movimento avrebbe dovuto fare i conti.
Caratteristiche, pratiche e limiti del movimento “no-global”
Il movimento che scese in strada a Genova ( che è stato poi definito in vari modi, popolo di Seattle, no global, altermondialista..), era composto da una pluralità di soggetti molto diversi tra loro per cultura politica e pratiche. Cattolici di base, mondo dell’associazionismo, sindacati, ambientalisti, movimenti contadini, centri sociali, anarchici e decine di altre componenti misero in scena negli anni diversi controvertici (a Seattle, Praga, Goteborg, Genova..), uniti nel voler contrastare il modello di sviluppo neoliberista che si era affermato a partire dagli anni ’80 e che conobbe un imponente sviluppo dopo il crollo dell’URRS, dando vita alla cosiddetta “globalizzazione”, ovvero alla conquista da parte del mercato e del capitale di ogni angolo del pianeta. Nella critica alla globalizzazione liberista e alle sue nefaste conseguenze per le popolazioni e per l’ecosistema mondiale stesso, possiamo già rintracciare un “punto di forza” e un limite di quel movimento.
Da una parte infatti la messa in discussione del modello neoliberista era riuscita a tenere insieme le istanze sociali e politiche più disparate, riuscendo a dar vita ad un movimento di protesta come da decenni ormai non si vedeva. Inoltre era presente una forte carica utopica nelle proposte e nelle parole d’ordine (“un altro mondo è possibile”) che ha contribuito a dare slancio e linfa vitale a quel movimento: può sembrare a prima vista un’osservazione ingenua, ma se lo confrontiamo alla situazione attuale, improntata quasi esclusivamente su forme di resistenza in un’ottica sostanzialmente difensiva, quella carica utopica non era sicuramente poco. Risultò di estrema importanza infatti la capacità di creare un immaginario simbolico comune, che favorì il superamento almeno parziale degli steccati ideologici-politici tra le varie realtà che componevano quel movimento e che favorì l’aumento dei suoi militanti attivi.
D’altra parte però è evidente dal nostro punto vista il limite politico della critica alla globalizzazione: mettere in discussione il liberismo, per gran parte di quel movimento e in particolare per la sua “dirigenza”, non significava assolutamente mettere in discussione il capitalismo stesso e chi quei processi li comanda, ovvero la borghesia imperialista. In altre termini la proposta politica del movimento noglobal ( o almeno dei suoi spezzoni più in vista) era sostanzialmente “riformista”: si riteneva possibile eliminare gli aspetti più tragici e negativi della globalizzazione senza intaccare i meccanismi economici e di potere del sistema capitalistico. Quelle componenti di movimento che al contrario portavano avanti una critica antisistemica rimasero sempre minoritarie senza riuscire a diventare egemoni.
Un altro nodo su cui quel movimento avviò una riflessione e su cui le posizioni rimasero sempre molto eterogenee, fu quello delle pratiche di piazza. Si andava infatti da chi praticava forme di pacifismo assoluto, a chi riteneva ormai superato ogni tipo di conflitto sociale e praticava forme di conflitto “virtuale”, fino ad arrivare alle componenti che praticavano l’azione diretta durante i cortei. La posizione dominante fu quella della pratica non-violenta, che rifiutava anche ogni tipo di organizzazione di piazza potenzialmente “offensiva” come ad esempio i servizi d’ordine. Il (falso) dilemma violenza/nonviolenza su cui si era arrovellato in particolare il movimento italiano si sarebbe tragicamente svelato e risolto durante le giornate di Genova.
Il g8 di Genova tra istanze di cambiamento e repressione
Nelle settimane precedenti al g8 di Genova si scatenò una violentissima campagna mediatica volta a criminalizzare il movimento e a creare una situazione di estrema tensione. I violenti scontri di Napoli durante il Global Forum del Marzo 2001, furono un’anticipazione e un chiaro avvertimento verso chi intendeva contestare il g8: vi attende la repressione. Agli osservatori e ai compagni meno ingenui apparve chiaro che a Genova non sarebbe stato possibile scendere in piazza senza un minimo di organizzazione: da parte loro però i portavoce del movimento ribadirono la loro volontà di scendere in piazza in maniera pacifica. L’area dei disobbedienti invece restarono convinti della possibilità di mettere in campo un assalto simbolico alla zona rossa, all’interno della quale si svolgeva il vertice. Tutti sappiamo poi come andò a finire, ovvero con una vera e propria mattanza. Centinaia di persone massacrate per le strade, torturate nelle caserme, e un compagno, Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere. L’Italia si era assunta l’onere di stroncare, manu militari, un movimento di protesta che da più di 2 anni cresceva in tutto il mondo. Disastrosa fu, a nostro avviso, sopratutto la gestione politica di quegli eventi: si cominciò a fare distinguo tra manifestanti “buoni” e manifestanti “cattivi”, cascando in pieno così nel “tranello” che lo stato aveva messo sulla strada del movimento, facendo leva sulle divisioni e le contraddizioni al suo interno. Nonostante la feroce repressione però, furono sicuramente delle giornate di straordinaria mobilitazione dal basso contro i potenti della Terra: il corteo del 21 luglio, con 300000 persone in piazza dopo le violenze del giorno prima e la morte di Carlo, fu una grande prova di forza.
Dopo Genova: dalle lotte no-war ad oggi
Nelle settimane immediatamente successive a Genova le denunce e le prove sugli abusi compiuti dalla polizia si moltiplicarono: vennero alla luce le torture di Bolzaneto, il massacro della scuola Diaz, e decine di altri episodi. Non vi è dubbio che le tragiche giornate di Genova portarono centinaia di compagni a radicalizzare le proprie posizioni politiche, mentre al tempo stesso la repressione aveva giocato il suo ruolo nell’irretirne l’attività di molti altri. A livello locale è da notare come l’onda di Genova produsse ben tre centri sociali a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro: “La Comune” a Massa, il progetto “Rebeldìa” a Pisa, e a Viareggio lo Spazio Antagonista Resistenza Sociale” (SARS). Spazi sociali che hanno permesso nel corso degli anni, una sedimentazione sui territori delle istanze politiche partite da quella stagione di lotta.
Come già accennato in precedenza l’attentato a New York dell’11 settembre mutò radicalmente lo scenario internazionale: l’occidente avrebbe risposto a quell’attacco terroristico con una guerra in Afghanistan e successivamente in Iraq, con tutte le sue inevitabili conseguenze: restringimento delle libertà e dei diritti, riduzione degli spazi di dissenso e critica. Le forze più reazionarie ebbero gioco facile nel fomentare la paura dell’ ”islamico”, portando la maggior parte dei paesi europei ad adottare politiche razziste e xenofobe (vedi la Bossi-Fini in Italia e i successivi pacchetti sicurezza). Il movimento, sopratutto per quanto riguarda l’invasione dell’Iraq del marzo 2003, rispose con imponenti manifestazioni in tutto il mondo contro l’ennesima guerra imperialista spacciata per missione di pace: il New York Times, di fronte alle decine di milioni di persone scese in piazza contro la guerra, definì il movimento “no-war” la seconda potenza mondiale. Nonostante ciò il movimento non riuscì mai a superare le proprie contraddizioni interne: quando, inevitabile, arrivò il riflusso le divisioni e le differenze di prospettiva politica presero il sopravvento. Tuttavia, nonostante un periodo non facile, la conflittualità sociale e i movimenti ad essa legati non sono mai venuti meno.
Nel nostro paese nel corso degli ultimi anni i momenti più alti di lotta sono state vertenze territoriali contro gli scempi operati da un capitalismo onnivoro. Due esempi su tutti sono il grandioso movimento No-Tav e le lotte contro la discarica di Chiaiano. Da valorizzare è sicuramente anche il movimento studentesco dell’Onda contro la riforma dell’istruzione pubblica del ministro Gelmini e soprattutto il movimento per l’acqua pubblica e contro il nucleare che sono riusciti ad ottenere un’importante vittoria nei referendum del 12 e 13 giugno scorso.
Il limite evidente però dei movimenti degli ultimi anni è da una parte la settorialità delle lotte, dall’altra una chiara deriva localistica. La mancanza di una prospettiva politica generale che permetta una sintesi e una riunificazione delle miriade di vertenze e lotte portate avanti nei territori, sono ad oggi il limite politico più evidente del movimento.
Ci auguriamo, anche a partire, dai risultati dei referendum che possa nascere una nuova stagione di lotta che metta al centro la riappropriazione dei beni comuni e che non si limiti a contestare le politiche neoliberiste ma che metta in discussione l’intero sistema capitalista. Quanto sta avvenendo tra i popoli arabi, in Grecia e in Spagna nonostante le differenze può dare vita ad una nuova stagione di lotta.

Coordinamento Anticapitalista Versiliese (CAV)

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