Sulla questione nazionale: ci sono tanti risorgimenti


In questi giorni assistiamo ad una assillante, quanto retorica, propaganda nazionalista rotta sola dai deliri secessionisti di una certa borghesia del Nord Est e della forza politica che la rappresenta: la Lega Nord. Gli uomini delle istituzioni, di destra o di sinistra, fanno mescolature incredibili, mettendo assieme i garibaldini con i soldati italiani che oggi muoiono nelle missioni militari all’estero. E’ evidente il tentativo revisionista di scrivere una storia condivisa di quel periodo che passa sotto il nome di Risorgimento. L’unificazione d’Italia è stato un processo storico e politico complesso e controverso e come tutti i processi storici e politici non può essere condiviso in modo unanime da tutti. Divise allora ed è normale che divida oggi. Le divisioni non furono solo tra contrari e favorevoli all’unificazione ma soprattutto su quale tipo di unità fosse più adatto. Le popolazioni del Sud percepirono il nuovo stato come un espansione del Piemonte. Per 1300 anni la divisione permise alle potenze straniere di fare il bello e cattivo tempo sulla penisola. Il papato e lo Stato pontificio per secoli hanno rappresentato un freno all’elemento nazionale e un ostacolo strategico, tagliando in due l’Italia. Le Repubbliche marinare, lo sviluppo dei Comuni e delle Signorie, con la loro struttura limitata, furono incapaci di svilupparsi in stato nazionale e favorirono gli interessi locali. Le occupazioni straniere e la loro nefasta influenza, durate per secoli, furono un altro enorme macigno verso l’unificazione del Paese. A ciò dobbiamo aggiungere: il parassitismo dei ceti privilegiati italiani, essenzialmente proprietari fondiari e usurai, per nulla interessati allo sviluppo economico. Il capitalismo si sviluppò in Italia, con le prime banche, nel 1400, ma per tutto il sedicesimo e fino al diciottesimo secolo, ci fu una decadenza della nascente borghesia, dovuta a fattori quali la sottomissione dei piccoli stati italiani a spagnoli, francesi, austriaci. Dal crollo dell’Impero romano fino all’unità d’Italia, e anche dopo, il nostro paese ha subito passivamente i rapporti internazionali e non è riuscito a sviluppare quelli interni. Le origini del Risorgimento non possono essere lette sganciate dalle trasformazioni di tutto il sistema europeo a cavallo fra il ‘700 e l’800. La rivoluzione industriale, la formazione degli stati nazionali, la Rivoluzione francese, l’abbattimento dell’ancien régime feudale, assestarono un colpo micidiale alle forze più reazionarie, indebolirono la posizione dello Stato della Chiesa, il più acerrimo nemico dell’unità italiana. L’intervento napoleonico ricollegò la penisola agli sviluppi economici e politici europei. Non bastò certo il Congresso di Vienna a interrompere il corso della lotta fra le classi. Riconosciamo in tutto questo il carattere storicamente progressivo di quel processo che porterà alla nascita del Regno d’Italia e alle conseguenze in primo luogo il colpo durissimo che assestò al potere temporale della Chiesa e alle altre forze reazionarie, straniere ed interne, l’unificazione del paese, il superamento dei vincoli feudali e lo sviluppo di una fase capitalistica in Italia, premessa indispensabile del socialismo. Tuttavia è importante ricordare che l’Italia non giunse all’unità nazionale per mezzo di una rivoluzione popolare, ma per vie militari e diplomatiche del compromesso fra gli strati dominanti e le potenze internazionali. Senza il sostegno di potenze straniere come Inghilterra e Francia che appoggiarono il Piemonte in chiave anti austriaca questa unità sarebbe stata impossibile.
Il “volontariato” di borghesi, ufficiali, professionisti fu un surrogato dell’iniziativa popolare. Questo carattere minoritario del Risorgimento ha condotto gli storici e gli analisti borghesi a narrarlo come un ”miracolo”.
Lo scarso apporto delle masse popolari si rifletterà nelle basi stesse dello Stato che si andava fondando e in tutta la storia successiva. Acuta e precisa è l’analisi che fa Engels. In una lettera a Turati, del gennaio 1894, metteva in evidenza: “La borghesia italiana giunta al potere durante e dopo l’emancipazione nazionale, non seppe né volle completare la sua vittoria. Non ha distrutto i residui della feudalità, né ha organizzato la produzione sul modello borghese moderno. Incapace di far partecipare il paese ai relativi e temporanei vantaggi del regime capitalista, gliene impose tutti i carichi, tutti gli inconvenienti. Non contenta di ciò, perdette per sempre, in ignobili bindolerie bancarie, quel che le restava di rispettabilità e di credito. Il popolo lavoratore – contadini, artigiani, operai agricoli e industriali – si trova dunque schiacciato, da una parte, da antichi abusi, retaggio non solo dei tempi feudali, ma ben anche dell’antichità (mezzadria, latifundia del mezzogiorno, ove il bestiame surroga l’uomo); dall’altra parte, dalla più vorace fiscalità che mai sistema borghese abbia inventato”. L’impronta originale della debolezza e dell’inadeguatezza del capitalismo italiano, e con esso di tutta la società italiana, nonché della spinta alla rivolta delle masse sfruttate ed oppresse, è già qui individuato. Dal 1848 il motore dello sviluppo unitario fu lo Stato piemontese, con l’avvento dei liberali. Essi – consapevoli che senza unificazione del mercato nazionale si sarebbero trovati in grave difficoltà rispetto i paesi più forti – concepirono l’unità italiana come allargamento progressivo del Piemonte, della proprietà e del potere della dinastia di Savoia e dei gruppi industriali che si stavano sviluppando al suo interno. Dunque come movimento dall’alto e non come movimento nazionale popolare dal basso. Non a caso oggi la “democratica” borghesia celebra il 150° anniversario il 17 marzo, giorno della proclamazione di Vittorio Emanuele II a “re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione”, con la quale si sanciva la “conquista regia” dell’unificazione italiana. E’ nel DNA dell’Italia questo carattere oligarchico. Il ruolo dei democratici degli azionisti come Mazzini e Garibaldi alla fine divenne un ruolo subalterno a quello della monarchia liberale. I rivoluzioni, come Carlo Pisacane grande patriota che meriterebbe maggiore onore, furono sconfitti cosi come furono sconfitti i neoguelfi che vedevano nel papato il punto di riferimento. La Lega Nord più che al federalismo di Carlo Cattaneo che cita a sproposito è una forza che si rifà alle tendenze neoguelfe. I leghisti, infatti, più di una volta hanno sottolineato una mezza verità storica: quella che l’unità d’Italia fu fatta contro i cattolici. Pio IX scomunicò i Savoia e quando nel 1900 l’anarchico Gaetano Bresci uccise il re tiranno, Umberto I, le chiese non suonarono le campane. Il non exspedit impediva ai cattolici di intervenire nella vita politica del paese. Ci vorranno i patti lateranensi e il fascismo per sanare la ferita tra lo stato monarchico e il Vaticano. L’opzione neoguelfa, quella federalista, quelle repubblicane e democratiche fino a quella socialista furono sconfitte dall’opzione liberale perché così vollero le potenze straniere. Il nuovo stato nacque in continuità con le politiche del Piemonte tanto è vero che ne adotto persino lo statuto Albertino. La politica perpetrata dai primi governi italiani fu conservatrice e repressiva. Con la legge Pica contro il brigantaggio furono ammazzate oltre centomila perone. C’è un filo sottile che lega Cavour, Pelloux, Crispi, Giolitti, Mussolini, Badoglio, Scelba, Tambroni, Andreotti, Berlusconi: una stessa tradizione retriva e sanguinaria accomuna questi rappresentanti degli interessi del capitalismo e dell’imperialismo italiano. L’altra Italia quella che ci piacerebbe festeggiare non è mai emersa fino in fondo. A noi più che i suffragi di annessione piacerebbe ricordare l’eroica resistenza della Repubblica Romana. A noi più che avere come inno quell’obbrobrio che inneggia: “ad essere pronti alla morte e ad essere schiavi di Roma perché cosi dio la creò” ci piacerebbe avere come inno “Bella Ciao” e avere come bandiera il tricolore che durante la Resistenza usava la Brigata Garibaldi. Gli storici vicini al PCI hanno considerato la Resistenza come un secondo Risorgimento. Esistono analogie e differenze tra i due fenomeni che per motivi di tempo e spazio non approfondiremo qui. Ci limitiamo a vedere in entrambi i processi la voglia di riscatto di un popolo come analogia; la partecipazione del popolo stesso come differenza. Dalla Resistenza come guerra di classe avrebbe potuto nascere uno stato socialista ma ancora una volta la direzione borghese prevalse su quella proletaria. Ciò nonostante nel 1946 la borghesia grazie al ruolo dei partigiani in armi fu costretta a concedere una carta costituzionale che rappresentava un compromesso significativo tra borghesia e proletariato. Oggi che i rapporti di forza sono mutati sfavorevolmente per i proletari quella carta costituzionale viene messa continuamente in discussione dai padroni e dai loro lacchè. Tuttavia non basta difenderla. Noi attendiamo un nuovo “risorgimento” che spazzi via il capitalismo putrido che c’è nel nostro paese e dia vita ad un governo dei lavoratori che apra una nuova strada verso un socialismo moderno.

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